Talento tascabile

Cuore sardo, tecnica sudamericana e compostezza british, la storia di Sir Gianfranco Zola

Nella botte piccola c’è il vino buono.
Il proverbio non è necessariamente elegante per Gianfranco Zola, ma sta di fatto che i dribbling del folletto di un metro e 68 cm sono sempre stati inebrianti per i difensori, tanto quanto la bevanda di Bacco per i suoi degustatori.
Un campione immenso, un talento inversamente proporzionale alla statura, evidente sin dagli albori della carriera.
Un avvio sensazionale alla Nuorese prima e alla Sassari Torres poi, lampi di genio e classe cristallina che gli valgono la chiamata del Napoli.
Un saluto alla propria terra, quella dei quattro mori a cui Zola è sempre appartenuto con orgoglio. Un arrivederci, non un addio, perché chi è sardo lo sa, il cordone ombelicale con la propria origine non si taglia mai sul serio.
L’arrivo nella soleggiata città partenopea, all’ombra del Vesuvio e all’ombra di Maradona, la superstar mondiale, l’idolo assoluto da cui ha appreso molto.
Chi ama il calcio non poteva non amare Maradona. Al primo giorno di ritiro il suo benvenuto è stato questo: finalmente ne hanno comprato uno più basso di me. Era una leggenda vivente ma non si dava arie, era semplice, diretto, disponibile.
Un piacere che però non è stato mai a senso unico, come testimoniato dalla parole del Diego: “È stato il mio successore al Napoli. Era molto attento alle cose che facevo io durante gli allenamenti… e qualcosa gli è restato. Una grande persona, anche.
Un campionato ed una supercoppa italiana, prima dei trionfi europei a Parma, in Coppa Uefa e Supercoppa Europea.
Dopo l’Emilia l’esperienza in Inghilterra, un nuovo trasferimento, sempre più verso Nord. Decisivi i problemi tattici con mister Ancelotti, il cui schema non metteva il sardo delle condizioni ideali.
Valigie in mano e bocca cucita. Si può essere geniali ma non sregolati, Zola ne è l’esempio.
Mai una polemica, mai un litigio, mai nell’occhio del ciclone; come quella volta in Usa nell’assurdo episodio del Mondiale 94.
Sacchi lo inserisce in corso d’opera nel complicato incontro con la Nigeria. E’ il giorno del suo ventottesimo compleanno, ma il regalo dell’arbitro messicano Brizio non è affatto di quelli graditi: espulsione diretta del tutto immotivata.
Zola non protesta, si accascia al suolo, mani sul volto cercando di farsi ancora più piccolo di quanto già non sia. Così grande quell’ingiustizia, così tenera la sua immagine.
Eppure nessuna scenata, un dispiacere così comprensibile, una compostezza così degna di nota, degna di un baronetto inglese, degna del titolo di Membro onorario dell’Ordine dell’impero britannico, che dieci anni dopo gli sarebbe stato conferito da sua maestà la regina Elisabetta.
Insignito in qualità di “giocatore straniero più duraturo nella storia del Chelsea. Un eccellente ambasciatore del calcio e il modello ideale per giovani tifosi”. Un orgoglio assoluto, essere apprezzato come persona dal popolo anglosassone, lo stesso che con un tiro di destro aveva punito nelle qualificazioni a Francia 98. Vittoria a Wembley, 25 anni dopo quella targata Capello nel 1973, l’unica nella storia fino a lì.
Sir Gianfranco Zola in Inghilterra, magic box a Stamford Bridge in virtù delle doti balistiche in area di rigore. Una coppa delle coppe, due coppe d’Inghilterra, una coppa di lega, un Community Shield ed una supercoppa Europea, ma soprattutto il rispetto dei tifosi e la maglia numero 25 ritirata dal Chelsea.
Tutto prima di tornare alle origini, lì dove tutto era iniziato.
La Sardegna, il Cagliari e la fascia da capitano. Le ultime due stagioni, una per la promozione in A, l’altra per la salvezza, prima del ritiro e degli applausi a scena aperta.
Nella botte piccola il vino buono c’è per davvero, a maggior ragione in terra sarda, patria di ottimi vigneti, patria di Sir Gianfranco Zola “The Magic Box”.

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