Dire molto parlando poco, tanti auguri capitan Agostino

Di Bartolomei: una carriera fatta di poche eloquenti parole, tanti successi, la passione giallorossa ed un mistero insoluto

“Ci sono i tifosi di calcio…e poi ci sono i tifosi della Roma. Sono commoventi, meritano di più.”
“Non giocherei nella Lazio. Dopo 15 anni di Roma non credo sia giusto”.
Apparentemente glaciale, occhi scuri, impenetrabili, un uomo tutto d’un pezzo, ma dalla forte passione giallorossa.
Avrebbe compiuto oggi 61 anni Agostino Di Bartolomei, per tutti Ago, storico capitano del secondo scudetto romanista, morto suicida il 30 Maggio 1994, dopo un colpo di pistola al petto.
Un finale tragico, inaccettabile ed ancora inspiegabile per molti, familiari compresi.
La storia di Ago parte da Tor Marancia, un quartiere popolare della capitale. Il campetto dell’Oratorio San Filippo Neri alla Garbatella equivale ad uno stadio dei sogni, ma anche le piazze, i cortili non sono da meno. Si gioca a calcio ovunque.
Di Bartolomei è il più bravo di tutti, il suo tiro potente ed il suo carisma silenzioso si notano da subito. Il “tritolo di Tor Marancia” è destinato ad arrivare nel calcio che conta.
Giovanili e poi debutto nella massima serie il 22 Aprile 73 durante un Inter-Roma, a soli 18 anni. Nella stagione successiva arriva anche il primo gol, Roma Bologna 2-1.

La svolta della sua carriera avviene al termine del campionato 78-79. Dino Viola rileva la Roma, nomina Nils Liedholm allenatore, che intravede in “Diba” il fulcro centrale del suo progetto tecnico.
Un binomio perfetto.
Lo svedese inizialmente lo impiega davanti alla difesa, e lui mostra intelligenza tattica abbinata alla capacità di leggere il gioco in anticipo, doti che gli consentono di sopperire ad una lentezza di base. Riesce a pensare più velocemente dei suoi avversari.
Successivamente però, l’allenatore lo arretra, in una posizione più difensiva. Una mossa decisiva.

“Ebbe una seconda carriera come libero, o centrale difensivo. Un destino che tocca solo a giocatori di costruzione, con un grande senso del gioco collettivo. Come Beckenbauer, come Scirea che mi viene automatico accostare ad Agostino per i silenzi e per la stessa visione di un calcio semplice, pulito”
                                                                                                   Gianni Mura
Il volto cupo, un’espressione triste ed un carattere introverso poco loquace.
Caratteristiche apparentemente in controtendenza con la fascia di capitano che Ago porta al braccio.
Eppure il ragazzo di Tor Marancia interpreta il ruolo come meglio non potrebbe. Le parole dosate, quelle giuste al momento giusto, ma soprattutto comportamenti esemplari.
“Parlo poco perché è meglio di parlare troppo e perché c’è sempre il rischio che quello che hai da dire non interessi nessuno.”
Combattente fiero ed orgoglioso, meraviglioso collante tra squadra e dirigenza. Cuore generoso di chi darebbe e da tutto se stesso per i compagni di squadra. Uomo pronto a prodigarsi e fare grossi sacrifici per l’obiettivo principale: vincere con la squadra amata.
E ci riesce. Vince la Coppa Italia due volte di fila, nella stagione 79-80 e 80-81, ma non basta. E’ la stagione 1982-83 mancano poche gare al termine e la Roma è in testa e manca un solo punto alla matematica. Un giovanissimo Galeazzi intervista capitan Ago, la risposta è breve ma profonda.
I giallorossi arrivano in porto col vessillo, e si laureano campioni d’Italia.
“Ho sempre sognato di portare a Roma lo scudetto. Mi sarebbe piaciuto vincerlo con qualsiasi squadra, ma sapevo che vincerlo a Roma sarebbe stato diverso. Eccomi qui, capitano della Roma, che dopo 41 anni è campione d’Italia.”
La gioia più grande, incredibile ma non incontenibile. Nei giorni in cui la Roma vinceva lo scudetto e la città esplodeva, infatti “Diba” scriveva:
Per la città è un momento storico, ma proprio perché riveste il carattere dell’eccezionalità mi sia consentito di rivolgere ai nostri affezionati tifosi, un invito a non cadere nel provincialismo, a non lasciarsi andare a sfrenati festeggiamenti. Che sia festa grande è giusto e comprensibile, purché ciò avvenga nei luoghi consentiti. Non bisogna infatti dimenticare che non tutti si sentono coinvolti nella festa e di conseguenza non vogliono essere disturbati”.
Capitano rispettoso, non solo in campo. Nell’83-84 la Roma si conferma grande, arriva in finale di Coppa Campioni.
La città ospita la partita decisiva, tutti sono convinti di portare a casa il trofeo, ma ciò non avviene. I giallorossi finiscono ko ai rigori, il Liverpool ha la meglio.
Il capitano segna, ma non basta. E’ il 30 Maggio 1984.
Dieci anni esatti dopo Agostino compie il fatale gesto, prende la pistola e si toglie la vita.
Forse anche perché quel mondo, che tanto gli ha dato, gli ha negato la possibilità di avere un ruolo in vesti diversi di quelle da calciatore.
“Prendo il calcio come una professione. Cerco di trarne dei vantaggi che sono anche economici, ma soprattutto cerco di godermi questo momento della vita in cui riesco a fare veramente ciò che amo. Cioè giocare a calcio. Quando scendo in campo ritorno a quando giocavo in “parrocchietta”, in mezzo alla strada o sulla spiaggia. Penso sempre a vincere e a divertirmi. Il denaro che il calcio mi procura mi serve soltanto per pensare al futuro.”
Un futuro che non c’è più, come Agostino.

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