CanaDays: 3

L'avvicinamento alle Niagara Falls è particolare, sembra l'ingresso degli Studios a Los Angeles o di Disneyland a Parigi; maestoso, colorato, pieno di grandi insegne luminose che ben testimoniano a queste latitudini di spettacolarizzare sempre tutto, anche un patrimonio naturalistico, avvicinandolo il più possibile ad un parco divertimenti. Al di là di questo però, la visuale che si presenta davanti agli occhi è unica, senza eguali.







Un' ingente mole d'acqua disposta a ferro di cavallo prosegue nel vuoto il suo corso nel fiume, verso l'Ontario Lake, destinazione finale di un lungo tragitto. Un tuffo di oltre 50 metri, che comporta un'accoglienza scrosciante non da parte di un pubblico festoso, ma dello stesso fragore dell'acqua, il cui getto al momento dell'impetuoso impatto crea un muro apparentemente invalicabile, nonostante il poncho violetto sembri un utile ausilio, armatura simbolica di quest'impresa suggestiva, da affrontare a bordo di un battello dalla ciurma  eccessivamente numerosa e decisamente multietnica.


 
Asiatici, europei, oceanici e quant'altro, quello che Noe aveva fatto con gli animali, gli organizzatori delle Niagara Falls lo hanno fanno con le persone, mettendo su gruppi variegati e cosmopoliti. Succede così che le urla di meraviglia dei cinesi in prima fila vengano sbeffeggiate dagli europei latini che, seppur colpiti dalla bellezza del momento, rifiutano tale reazione. Algidi, freddi, solo esteriormente impassibili i nordeuropei, lontani dall'atteggiamento americano di chi vive l'esperienza quasi lasciandola in secondo piano, quasi sfocata in un campo visivo in è il compagno di chiacchiere l'elemento principale. Tra tutti però, quello che sta vivendo il momento più difficile è senza dubbio il turista nipponico, che ha ben messo a fuoco il paesaggio e scelto l'obiettivo adatto all'occasione. Armato di una Nikon di pregevole e recentissima fattura, è pronto a molteplici scatti, tutti estremamente suggestivi, come ogni giapponese che si rispetti. E' qui però che va in scena il suo personalissimo dramma: l'impazienza e la contentezza di poter ampliare il proprio archivio lascia rapidamente spazio al timore che l'imminente getto della cascata possa fatalmente danneggiare l'oggetto custodito e venerato con tanta devozione. 
Un contrappasso curioso: far morire ciò che generalmente dona l'immortalità ai luoghi e ai momenti felici che si sceglie di ricordare.
Scettico, timoroso ed incerto come un bambino a cui si chiede se vuole più bene alla mamma o al papà, il nostro eroe sembra essersi rassegnato a concedere ai propri indici un giorno di riposo, una pausa meritata sebbene non voluta. Bandiera bianca, la salute (della Nikon) prima di tutto. 

Yuto resiste. 
Almeno ci prova, finché non scatta qualcosa. O meglio, finché non scatta qualcuno.
Basta un click, un selfie di gruppo al suo fianco, input malefico di una tentazione irresistibile.

Nel cuore nipponico del turista asiatico l'ambizione di rendersi autore di una fotografia sempre migliore cresce prepotentemente, non lasciando più spazio alla paura per la propria macchinetta. Nel suo animo si fa largo il coraggio dei propri antenati, impavidi fautori del massimo atto di temerarietà: l'harakiri.
Animato da questa nuova vigoria Yuto si mette all'opera, immortala ogni cosa degna di interesse, onorando al meglio la cultura del Sol Levante.

Il "samurai della fotografia" in terra canadese. Ce l'avevo a due passi, la versione 2.0 dell'emblematico guerriero nipponico.





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